domenica 21 gennaio 2007

La donna giusta - commento

La Donna Giusta di Sándor Márai

Tre punti di vista, tre verità, tre personaggi che si abbandonano alla confidenza in tre lunghi monologhi.

Esiste la “persona giusta” per ciascuno di noi? Sembra questa la tesi del romanzo. Márai pensa che no, non esiste. In ciascuna delle persone che incontriamo e con le quali si sviluppa un rapporto d’amore c’è qualcosa d’importante per noi.

È una tesi affascinante (che condivido in pieno), che ci permette di vivere non in attesa di un solo incontro, quello fatale, ma prendendo, nell’intensità di ciascun incontro, ciò di cui abbiamo bisogno, in quel momento, per la nostra vita.

La Donna Giusta è il primo romanzo di Márai, tra quelli pubblicati finora da Adelphi, che affronta palesemente il conflitto di classe, il rapporto tra uomo e donna sul piano sentimentale, intellettuale e fisico. Scritto in tre fasi, 1941, 1949 e 1980, è, a mio avviso, il romanzo summa del pensiero di Márai. Mai, come in questo romanzo, lo scrittore si scopre e si abbandona al lettore. Anche lui, in un lungo monologo.

Due donne e un uomo. Non il solito triangolo che nasce dal tradimento, ma un triangolo che nasce da una diversa condizione sociale.

La prima donna, moglie raffinata e devota ama sublimando i sentimenti;

la seconda donna, la proletaria, serva di una casa borghese;

l’uomo, irrimediabilmente borghese, colui che rappresenta la sua classe sociale.

I tre si affrontano, si studiano, si controllano, si analizzano secondo le loro capacità di analisi e di reazioni.

Sullo sfondo delle vicende politiche dell’Ungheria del ’47 e del ‘56, Márai ci racconta di Peter, l’uomo borghese, l’intellettuale borghese che, intuendo il fallimento e il crollo del mondo a cui appartiene da generazioni, tenta di salvarsi, attraverso un amore proletario. Il proletario non ha bisogno delle giustificazioni e delle sofisticazioni dell’amore borghese, pensa Peter, il proletario appartiene alla Natura, nella semplicità e nella forza, forza che Peter sente liberatoria per sé e per le sue sovrastrutture.

Peter ignora che il proletario vuole solo diventare un borghese, mascherarsi da borghese, vivere come un borghese, depredare il borghese. È quella la sua aspirazione, da sempre. Ed è ciò che fa Judith, la serva. Peter la vede come occasione per uscire dall’ordine e dalla solitudine in cui si sente confinato. Judith vuole entrare in quel mondo per ripagarsi delle umiliazioni, per dimenticare la fossa con i topi nella quale ha vissuto da piccola. Ciascuno dei due segue un suo disegno. Ciascuno dei due fallisce in quel disegno.

Solo Lazar, l’intellettuale disincantato, ha coscienza che quella è la definitiva fine di un’epoca. E capisce quanto Judith abbia fatto parte di un gioco perverso, quanto sia stata usata per servire ancora una volta il borghese nell’illusione di averne occupato il posto, di aver vinto mentre, in definitiva, è ancora lei la vittima che si ritrova senza alcuna identità.

Márai ci dà pagine indimenticabili: da grande maestro della scrittura, della conoscenza dei sentimenti e dei grovigli nei quali i sentimenti sono costretti a muoversi.

Credo che ciascuno possa ritrovare un pezzo di ciò che ha vissuto in amore: meccanismi, trappole, finzioni, abbandoni.

La condizione borghese, grande tema dello scrittore, è raccontata come una gabbia dalla quale è impossibile uscire. E’ talmente infarcita di egoismo e di ripiegamento sui propri sentimenti da rendere impossibile l’affacciarsi sui sentimenti altrui.

L’analisi che Márai ne fa non può che essere di un borghese (quale lui era) che si dibatte in quella condizione e che la vive come fosse nella “città proibita” degli imperatori cinesi. Al di qua del muro si ignora l’umanità che vive al di là.

La differenza di classe, che negli altri romanzi fa da sfondo, in questo è il perno del libro e “l’altra” classe sociale viene presa in considerazione solo come possibilità di salvezza. Quindi, ancora una volta, sfruttata da chi ha il privilegio del potere economico e intellettuale.

Certi commenti sulla società nella quale il protagonista vive, sono di una grandissima attualità.

Solo nel 1980 Márai aggiunse al libro la quarta voce.

È il suo sfogo sul comunismo, sulla società consumistica che sostituisce quella borghese, sulla trasformazione di un mondo che non ritroverà più. È il grido dell’intellettuale di fronte all’ignoranza dilagante.

«Perché questa specie di Petõfi dei miei stivali le ha detto che al mondo c’è una cosa che è centomila volte meglio del mangiare e del bere. Che cos’è? Ma è la cultura! E le aveva anche detto che la cultura è un riflesso condizionato.»

Non è certo un caso che il libro finisca ambientato in America.

Non è certo un caso che, proprio in America, dove era andato in esilio, Márai si sia suicidato.

Luglio 2006

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