domenica 21 gennaio 2007

Marai incontra Marai - commento

Màrai incontra Màrai

Dopo essere stata affascinata dalla lettura de Le Braci (1942), sto leggendo a ritroso gli altri libri di Sàndor Màrai pubblicati dall’editore Adelphi.

Questo ordine di lettura riporta alle radici dei personaggi e si presta a considerazioni di grande interesse. Oserei dire che permette di scoprire alcune delle ossessioni e forse le sofferenze dell’uomo Màrai.

L’Amore, con l’A maiuscola, sembra, a una prima lettura, il grande tema delle sue storie. Amore inteso come passione eterna, “pienezza della vita” tra uomo e donna; amore inteso come grande rapporto di amicizia e di lealtà fra uomini. E solo tra uomini: l’amicizia fra un uomo e una donna non è considerata. La donna è il mezzo d’amore.

In realtà l’amore è il pretesto per sollevare un velo sulle ambiguità, sulle rivalità, sugli odi, sulle passioni più segrete che abitano in ciascuno di noi e che ciascuno di noi esercita sotto l’egida dell’amore. Sono spietati i personaggi a cui Màrai affida questo compito, sono spesso laidi (il Casanova de La Recita di Bolzano e l’attore de I Ribelli), sì che il lettore riconosca il vero e il falso, l’innocente e il perverso, la vittima e il carnefice. Ma poi, quando tutto sembra comprensibile, si insinua un punto interrogativo: è veramente tutto così chiaro? E il lettore entra da protagonista a sciogliere l’enigma.

Per semplicità analizzo gli elementi che collegano le storie e le intrecciano in modo inconfondibile.

Le donne

Il rapporto di Marài con le donne, anzi con la Donna, deve essere stato molto sofferto se lo scrittore ha sentito il bisogno di farne un oggetto conteso. I due soli personaggi femminili che vivono un ruolo attivo, sono Eszter, ne L’ereditàEszter (1939), e Francesca, ne La recita di Bolzano (1940).

La prima, Eszetr, è una donna passiva, rassegnata: un amore vissuto vent’anni prima le ha lasciato ferite inguaribili. Vittima ancora del suo dominio non riesce a liberarsi dalle prepotenze dell’uomo che l’ha illusa: “gli amori infelici non finiscono mai.”

La seconda, Francesca, pur amando ancora un Casanova invecchiato, pingue e povero, senza più alcuna attrattiva, sente la debolezza di un grande ricordo d’amore, ma sente anche la forza che le viene dalla coscienza di un tempo ormai passato.

Francesca è lucida e questa lucidità le permette di controllare le passioni. E pur confessando - a un Casanova vendutosi vigliaccamente al conte, marito di lei - un amore che non si esaurirà mai, lo abbandona lasciandolo nello squallore della sua realtà, nel freddo di una stanza in cui il fuoco si è spento da tempo. “Per indicarci che un giorno tutte le passioni diverranno cenere.”

E’ l’unica donna, raccontata da Màrai, che per una lunga notte parla e domina, con le sue argomentazioni appassionate sull’amore, la bellezza, la vita, la morte, il destino, un uomo che non osa rispondere perché ha siglato un patto di tradimento: “Non è servito a nulla che io ti abbia offerto la voluttà e la pace, la purezza e la rigenerazione?” Ma lui tace.

Le altre donne, pur protagoniste assolute delle vicende narrate, non vivono nel romanzo se non come fantasmi evocati dagli uomini che le hanno amate e che continuano a consumare la loro esistenza nel ricordo di quell’amore perduto.

Krisztina è la donna amata ne Le Braci. Nobile, misteriosa e traditrice, emerge e se ne parla quando, morta da anni, i due uomini che l’hanno posseduta si rincontrano ormai vecchi ma ancora bisognosi di chiarire quel tradimento. Il loro incontro, in un colloquio, che occupa praticamente tutto il libro, mette a nudo quanto quel tradimento sia rimasto una profonda ferita per il marito, il generale, e quanto invece sia stato per Konrad, l’amico esclusivo fin dai tempi del collegio, un modo per azzerare le differenze sociali (che inconsciamente si è portato addosso con grande fatica), e di rivalersi di quell’amicizia così profonda e generosa che non ha mai potuto ricambiare alla pari. Le sue condizioni sociali ed economiche non glielo hanno permesso e quel peso non lo ha mai abbandonato. Tradire l’amico, facendosi amare dalla moglie, è l’atto spregevole ma liberatorio che permette a Konrad di fuggire per ricostruire la sua vita lontano, libero dai confronti, libero dai rimorsi.

Un’altra donna, Anna, nel Divorzio a Buda, (1935) vive da morta nella lunga requisitoria con cui Imre, un medico di mezza età, inchioda per tutta una notte Kristof, il giudice. Quel giudice che il giorno dopo avrebbe dovuto pronunciare il loro divorzio. Ma Imre non può rompere il suo rapporto con Anna se non attraverso la morte. E infatti la provoca e va a confessarlo a Kristof ricostruendo, come in un sogno, una ipotetica attrazione che lo stesso Kristof avrebbe nutrito per Anna tanti anni prima facendo di Anna, a sua insaputa, una donna contesa.

Il personaggio di Kristof potrebbe essere il generale de “Le Braci da giovane: nobile, perfetto, con la responsabilità di grandi tradizioni; come il personaggio di Imre potrebbe essere un precursore di Konrad: origini molto modeste vissute, come una sorta di frustrazione, nei confronti del ceto nobile, mentre Anna anticipa Krisztina, immensamente amata e perduta. Divorzio a Buda sembra il canovaccio, poi maturato e perfezionato, del capolavoro: Le Braci.

Le differenze sociali

Oltre che ne Le Braci, sfumato dall’amicizia apparente e da sentimenti mai espressi e mai affrontati lealmente, e nel Divorzio a Buda, quello della differenza di casta è un altro tema che Màrai tiene a mettere in evidenza nei suoi libri.

Emerge molto bene ne I Ribelli (1930).

Un gruppo di giovani, accomunati dall’appartenenza alla stessa scuola, dall’idea di rifiutare la realtà che vivono in una piccola cittadina - sconvolta dalla prima guerra mondiale – decidono di formare una “banda” per agire e comportarsi fuori dalle norme imposte dalla loro educazione e dal loro ambiente. Tutti si sentono affratellati da questa condivisione segreta, non avvertono alcuna differenza tra loro. Da Abel, figlio del medico facoltoso, che sente ”gli effluvi acri e penetranti dell’etere e della tintura di iodio che filtravano dall’armadietto dei medicinali”, a Bèla, figlio del salumiere, “intorno quale fluttuava un aroma di spezie orientali, di aringhe, e di frutta fresca”, a Erno, figlio del calzolaio, “che odorava di colla e di pellame al grezzo,” a Tibor, figlio di un colonnello in guerra, con una madre molto malata, nella cui casa “regnava un odore di povertà e di malattia intriso di lavanda.”

“I mestieri dei padri impregnano le loro abitazioni di odori inconfondibili.” Dice Marài all’inizio del romanzo per avvertire il lettore che le differenze tra la “banda” ci sono e gli odori ne sono una inconfutabile traccia.

Complici nella guerra – parallela a quella dei loro padri - che combattono contro la società; compatti nei giochi che inventano e sviluppano, finiscono col non vedere più, nella loro innocenza, il confine tra la realtà e il gioco. Non ne conoscono i rischi e vanno verso una tragedia imprevista quando scoprono che Erno, il figlio del calzolaio, li ha traditi denunciando i loro giochi segreti. E qui esplode, in tutto il suo tragico livore, il conflitto di classe, mai sopito e mai sopportato. Erno risponde alle accuse dei compagni: “Le migliaia di volte, ogni santo giorno, che mi avete preso a calci in un modo o nell’altro? No, non era colpa vostra. Non è mai colpa di nessuno. Voi eravate il tatto e la bontà in persona. Io odiavo il tuo tatto. Detestavo la tua bontà. Ti odiavo quando maneggiavi il coltello o la forchetta. Quando salutavi qualcuno. Quando sorridevi. Quando ringraziavi per qualcosa, per un oggetto o per un’informazione…Odiavo i tuoi gesti, il tuo sguardo, il modo in cui ti alzavi e ti sedevi. Non è vero che queste cose si possono imparare. Ho capito che non c’è denaro, potere, forza, conoscenza che possa compensare tutto ciò. Che potrò campare cent’anni e diventare milionario, e quando voi marcirete già da tempo nella cripta – perché voi altri anche da morti ve ne starete in un palazzo tutto vostro, non come noi cani, che ce ne stiamo in cantina già da vivi -,anche allora mi sentirò infelice perché mi verrà in mente il modo in cui Tibor sapeva chiedere scusa a un passante, che aveva involontariamente urtato, con un gesto della mano e un sorriso…Io non so come ci si possa purificare, ma mi sento più pulito al solo pensiero di voi tutti immersi nel fango fino al collo. E alla fine voi creperete.”

L’odio covato e finalmente confessato, provoca il suicidio di Erno che non riesce a sopravvivere ai suoi stessi sentimenti.

La rappresentazione

La recita, la maschera, sono un altro dei temi amati da Màrai, anzi, come accennato prima, forse il tema più amato. Trattato nel modo psicologicamente più profondo si può dire che è presente, in un modo o in un altro, in ognuno dei suoi libri. Ogni personaggio sembra abbia una maschera, ogni personaggio sembra appartenere a una sceneggiatura precisa e sofisticata.

Naturalmente ne La recita di Bolzano diventa fondamentale nell’incontro fra Casanova e Francesca. Per tutta una notte si confrontano, si confessano, parlano di amore assoluto, vestiti in maschera e con il volto coperto: lei in abiti maschili e lui in abiti femminili. I ruoli scambiati, realtà e finzione, travestimento dei destini.

Màrai fa dire a Francesca: “E sei fuggito invano, perché adesso siamo di nuovo qui, l’uno di fronte all’altro, e aspettiamo il momento in cui potremo toglierci la maschera, amore mio: ci sono ancora tante, tante maschere tra noi, e dovremo togliercele una dopo l’altra prima di vederci finalmente a viso scoperto. Non avere fretta, non ti agitare, non allungare la mano verso la maschera, non gettarla ancora! Non è un caso che oggi, dopo tanto tempo, ci ritroviamo con la maschera sul volto, quando ciascuno di noi si è liberato dalla sua prigione e siamo qui, l’uno di fronte all’altro; non affrettarti a gettare la maschera, perché sotto ne troveresti un’altra, fatta di ossa, di carne e di pelle, che tuttavia è una maschera proprio come quella di seta. Dovremo gettare molte altre maschere prima che io possa vedere e conoscere il tuo volto. Ma so che da qualche parte, lontano, molto lontano, esiste anche un tuo volto diverso, ed è quello che un giorno devo vedere; perché ti amo.”

E tutto ciò che si dichiarano a cosa appartiene? Alla recita o alla vita? Al fascino della finzione o alla sofferenza della realtà e dell’abbandono?

Màrai lascia al lettore tutte le riflessioni sulla verità.

Ne I Ribelli diventa fatale l’incontro tra la “banda” e un ambiguo attore fallito che li affascina con le sue trasformazioni, conquista la loro fiducia, entra nei loro giochi fornendo costumi di scena, li fa credere liberi “dai tentacoli di quella disciplina che li aveva oppressi nella loro infanzia.” Si serve della loro ingenuità e della loro paura per i suoi loschi affari. “Ma l’attore aveva delle capacità di cui nessun altro era dotato.”…”Riusciva a parlare con loro come nessun adulto era mai stato capace di fare.”… “L’attore recitava, spinto dalla stessa necessità che costringeva anche loro a recitare, deformando la realtà dietro le smorfie dolorose di un personaggio, di una maschera. Per lui interpretare una parte era un’esigenza, così come per essi era una legge. Può darsi che l’attore sperimentasse i movimenti più autentici della sua vita solo mentre stava in scena; così come i ragazzi avevano la sensazione che la loro vita dietro lo schermo del reale fosse più autentica di ogni realtà."

Ed è lui, l’attore, il personaggio in maschera, che li porta cinicamente alla tragedia.

Ne Le confessioni di un borghese (1934), autobiografia dello scrittore, si ritrovano le radici dei suoi romanzi. E’ il libro chiave per capire l’opera di Màrai.

Si capiscono i passaggi importanti della sua vita, e, come nei suoi libri, le donne lo accompagnano ma non si vedono. Non si sa molto di loro, neppure se lui le ama: un velo di pudore le protegge dalla curiosità del lettore.

Indimenticabili le pagine dedicate alla Berlino e alla Parigi del tempo. Splendide città viste e vissute da un giovane giornalista straniero in cerca di affermazione.

Ultimo libro pubblicato Terra,terra (1969), completa l’autobiografia raccontando non più le ambiziose peregrinazioni di un giovane borghese ma le sofferenze di un borghese durante l’occupazione di Budapest da parte dei nazisti, prima, dei comunisti, poi. Nelle pagine che parlano dell’umiliazione della città amata, si sente il borghese ferito nel suo orgoglio che, in fondo, non si domanda cosa viva chi non appartiene al suo ceto sociale, ma soffre per ciò di cui lui, il borghese, l’intellettuale, viene privato. “La crudeltà burocratica, meccanizzata e impersonale è umiliante per l’uomo, mentre quella individuale si accontenta di causare tormenti.E adesso, ancora in uniforme, la crudeltà era ricomparsa a Budapest.”

L’interesse di questo libro, appassionato e dolente, è, inoltre, di farci sentire Màrai non più come un grande scrittore appartenuto alla Mittleuropa, ma uno scrittore vicino, contemporaneo, appartenuto alla nostra storia.

Sì, Sàndor Màrai nei suoi romanzi ci fa riflettere sull’amore, ma ci propone una riflessione ancora più profonda sulla verità e la finzione che appartengono, nello stesso modo, alla nostra vita.

3 settembre 2002

1 commento:

alan ha detto...

Per il momento (finito ieri) ho letto solo La recita e ne sono rimasto avviluppato come si trattasse di un liquido, più che un libro. Mi sono sentito affondarvi dentro, sprofondarci, e, pur non sapendo nuotare, sentivo qualcosa tenermi a galla, qualcosa spingermi verso l’alto. Come si può pensare di reggere certi monologhi, tirate di venti e più pagine, se non grazie alla forza e all’intensità del testo stesso? In quei personaggi, perfettamente definiti “spietati”!, ci sono tre diversi punti di vista (ciascuno dettato da carattere e stato) su quella piccola, benedetta & maledetta cosa chiamata amore. Per il Conte amore è feudo, possesso, e sangue e danaro e ferite (agli invasori del possesso, al possesso stesso…) sono al suo servizio; per Giacomo, avventuriero di una città che scorre, amore è fuga (dai sentimenti = legami) e dalle emozioni; amore è, al massimo, cicatrice; per Francesca, donna e neo-alfabetizzata (come dire: donna e donna pronta alla tortura…) amore è appartenenza (quasi che il possesso subito ne abbia provocato una reazione opposta…), consegna.
I tre monologhi sull’amore arrivano quando il romanzo, passata una bonaccia di qualche capitolo, riprende quota e dispiegano la propria voce attraverso una scrittura miracolosamente densa e al contempo lieve.
Forse è proprio questa scrittura ad impedirci di andare a fondo.